Sono a Londra, nello headquarter di una importante multinazionale. L’amico che devo incontrare è uno dei top manager, riporta direttamente al CEO e coordina il lavoro di centinaia di persone. Eppure non ha un ‘suo’ ufficio. Mi accompagna in una vasta sala piena di scrivanie tutte eguali e mi dice “in genere mi siedo lì in fondo”. Solo il CEO e un altro paio di persone in azienda hanno un ‘loro’ ufficio. Gli altri condividono degli spazi. Si chiama hot-desking e all’estero è una prassi normale. Solo i massimi dirigenti hanno il ‘loro’ ufficio con scrivania, divanetto e ficus. Gli altri, dal middle manager in giù, quando si trovano in sede occupano la postazione che trovano libera, collegano il loro portatile e iniziano a lavorare. Se devono incontrare un cliente o un collega prenotano una saletta.
Noi italiani, attaccati all’ufficio più come status symbol che per reale necessità, arriviamo buoni ultimi. Ovviamente si risparmia spazio il che significa affitti, riscaldamento, raffrescamento, pulizie e quant’altro. Ma soprattutto si sottolinea il concetto, ben noto nelle vendite e nella consulenza, che difficilmente si produce valore aggiunto quando ci si trova in ufficio.
Smaterializzare non significa tagliare
Fino a ieri la digital transition era considerata da molte imprese un investimento se non addirittura una spesa in più. Oggi per fortuna ci si accorge che questa evoluzione oltre a essere più o meno obbligatoria è un modo ‘smart’ per ridurre i costi fissi di una organizzazione, aumentandone la flessibilità.
La parola d’ordine è smaterializzare che non significa ‘tagliare’ ma aumentare la flessibilità. Gli uffici sono necessari ma l’idea che si possa lavorare solo in ufficio è stata sepolta per sempre. Ci accorgiamo che l’articolazione fisica degli spazi in una azienda cristallizza delle relazioni, crea delle ‘Siberie’ e dei ‘Paradisi’ dettati dalla collocazione geografica, ostacola i flussi di informazione, impedisce l’incontro fra esperienze e punti di vista diversi (che infatti avviene surrettiziamente davanti alla macchina del caffè o in mensa).
Dammi una ragione per andare in ufficio
Finalmente ci accorgiamo che vale la pena di ‘andare in ufficio’ perché in quello spazio si può accedere a delle risorse non fisiche ma relazionali, personali: colleghi, clienti, fornitori.
L’IT non fa fatica ad adattarsi a questa realtà. Anzi è la tecnologia che ha reso possibile tutto questo. La transizione però deve essere programmata. La smaterializzazione non consiste nel togliere ma nell’aggiungere. Smart working e hot-desking comportano giganteschi problemi di sicurezza che vanno affrontati uno per uno: dalle password alle connessioni passando per la sicurezza dei PC in dotazione.
La tecnologia delle macchine virtuali in versione private o public cloud permette di risolvere molti dei problemi posti dallo smart-working. Ci sono problemi di continuità (e quindi di assistenza in remoto ai colleghi). Ci sono risorse di calcolo e di rete da assegnare in modo appropriato. Nulla che non possa essere affrontato ma bisogna avere presente il problema.
La transizione post-Covid19 verso un modo di lavorare più flessibile e con meno costi fissi può rivelarsi vantaggiosa per l’azienda, può spingere anche le imprese più conservative verso la transizione digitale. Ma questo processo deve essere governato.
Riccardo Montanaro, CEO e.tere@ srl