In estate, si sa, si ha il tempo di pensare. Libèrati (parzialmente) dalle noie del day-to-day, si possono guardare le cose più dall’alto e porsi delle domande di respiro più ampio del solito. Per esempio: che ruolo può avere l’esperto di informatica (interno o esterno non importa) nel contesto tecnologico e di mercato attuale? Che valore aggiunto può dare all’azienda per cui lavora?
Non si può più dire ‘no’
Una risposta è sicura: l’informatico non è più il ‘sacerdote’ in camice bianco, geloso custode di macchine e linguaggi arcani. L’informatico di ieri emetteva responsi quasi sempre negativi. Alle richieste dell’azienda rispondeva ‘no’ oppure ‘richiederebbe troppo tempo, troppi costi, ci servirebbero macchine nuove’ perché spaventato dalla complessità di realizzare da zero un codice che rispondesse perfettamente alle esigenze dell’azienda, testarlo e metterlo in produzione o dalla difficoltà di intervenire su una legacy di macchine, sistemi e ambienti. Oggi questo ruolo non è più pensabile. Il cliente (interno o esterno) ha in mano uno smartphone che esegue funzioni altrettanto complesse a costi e in tempi vicini allo zero o magari sa usare applicazioni incredibilmente flessibili e performanti. Così come il PC aveva intaccato la signoria dei ‘capicentro’ e dei camici bianchi, lo smartphone ha annullato il timore reverenziale del cliente nei confronti dell’ esperto di informatica.
L’informatico non è una commodity
D’altra parte non è detto nemmeno che l’esperto di informatica debba divenire una commodity come l’elettricista chiamato (il primo che viene in mente o quello che costa meno) a installare una plafoniera. Questo è un rischio, perché i manager e gli imprenditori più giovani oggi pensano di avere a loro disposizione strumenti (pensiamo al cloud) che permettono loro di disegnare da se le soluzioni di cui hanno bisogno. In molti casi è vero: potrebbero farlo da soli. D’altra parte molti imprenditori e manager sarebbero anche in grado di ripararsi l’automobile, costruirsi da se i mobili e cucinarsi il pranzo da soli a casa. Ma non è probabile che lo facciano. A meno che non abbiano perso il lavoro. Mi ricordo che negli anni 80 vedevo amministratori delegati che passavano parte del loro tempo a baloccarsi con il Basic o a creare fogli Excel o basi dati con Lotus 123 che mostravano a tutti con grande orgoglio invece di pensare a gestire l’azienda.
Al posto del cliente, meglio e prima
Quindi è vero oggi un buon cliente, un cosiddetto power-user, potrebbe fare buona parte di quello che farebbe un consulente. Ma un consulente può farlo meglio e più velocemente e soprattutto lasciando libero il cliente di fare quello che sa davvero fare (o che è pagato per fare). Deve essere però un consulente informatico di tipo nuovo.
L’informatico del futuro è quello che trova la soluzione
La soluzione del problema è data. Per quasi qualunque esigenza software esistono librerie di soluzioni e di funzioni, per qualunque esigenza hardware è possibile commissionare su cloud le risorse necessarie di calcolo, memoria e connettività. Si può fare benchmarking e cercare di capire come altre aziende hanno risolto lo stesso problema o quali soluzioni esistono sul mercato. La risposta all’esigenza del cliente arriva prima, magari non con l’eleganza e la personalizzazione che darebbe un codice scritto espressamente ma senza il rischio di non servire allo scopo che si prefigge il committente.
Invece di dedicare tempo a scrivere codice il consulente investe il suo tempo nel capire esattamente le esigenze del cliente e magari a prevenirle o a definirle insieme a lui aprendogli delle porte e delle finestre invece di chiuderle come si faceva una volta. Insomma l’informatico del futuro è quello che trova la soluzione riducendo al massimo il time to market e il tempo del cliente: le due risorse davvero limitate oggi in ogni azienda.
Riccardo Montanaro, CEO e.tere@srl